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‘Ndrangheta: Reggio manifesta contro gli attacchi alla magistratura

Torna in piazza la Calabria che dice no alla ‘ndrangheta: dopo la lettera minatoria recapitata al Procuratore di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone, il movimento antimafia cittadino si è dato appuntamento questa sera per manifestare “solidarietà e vicinanza alla magistratura reggina”. Obiettivo, spiega il movimento ‘Reggio Non tace’ in un suo comunicato, evitare l’isolamento e l’indifferenza che per troppo tempo hanno caratterizzato l’atteggiamento di Reggio di fronte alla protervia della ‘ndrangheta dando a quest’ultima un indubbio vantaggio.

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Gaza, flotta pacifista tenta di forzare il blocco. E Israele inaugura una nuova prigione.

Un centro di detenzione nuovo di zecca, militari in allerta e pattugliamento rafforzato sulla costa: Israele si prepara a respingere le otto navi pacifiste che da ieri fanno rotta su Gaza con a bordo 10,000 tonnellate di rifornimenti e aiuti e 500 persone, tra cui un gruppo di 50 eurodeputati.

La marina israeliana è già sul piede di guerra e ha annunciato che a nessuno verrà permesso di avvicinarsi alla Striscia, sotto assedio dalla vittoria elettorale di Hamas nel giugno del 2007. “Questa spedizione è una provocazione, dal momento che la situazione umanitaria a Gaza è buona e stabile, non c’è penuria di cibo o attrezzature”, ha detto il colonnello Moshe Levi, alto responsabile dell’esercito israeliano, di stanza al posto di controllo di Kerem Shalom, a nord della Striscia di Gaza. “Non vedo il bisogno di autorizzare il passaggio di una qualunque nave”. Continua a leggere

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‘Ndrangheta, sciolto gruppo scout di Rosarno. E il parroco punta il dito contro Libera.

In pochi avrebbero immaginato che personaggi più usi a rituali di affiliazione e santini, piuttosto che a divise, promesse e insegnamenti di Baden-Powell, avrebbero mai mostrato interesse per associazioni come gli scout. Eppure, a Rosarno –balzata agli onori delle cronache nel gennaio scorso per la rivolta degli immigrati e dimenticata subito dopo – la ‘ndrangheta è arrivata anche fra lupetti e coccinelle. O meglio, erano proprio personaggi che gli inquirenti ritengono legati alle ‘ndrine Pesce-Bellocco, ad occuparsi dell’educazione di lupetti e coccinelle. Lo ha svelato l’inchiesta “All Inside” della Dda di Reggio Calabria, nell’ambito della quale è stato arrestato Franco Rao, capo scout del gruppo “Rosarno2”.

Nei giorni successivi, le dimissioni di massa di una ventina di capi della comunità – secondo alcuni imposte dall’Agesci nazionale – ha portato allo scioglimento del gruppo. Una versione non confermata dagli educatori, che si sono limitati a far sapere di essere “chiusi nel silenzio. Siamo tutti molto amareggiati”. Continua a leggere

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Ndrangheta, rifiuti, servizi: un rosario di silenzi da Bosaso alla Calabria

Somalia, 1994. Fase conclusiva dell’operazione Restore Hope. La missione della Nazioni Unite avrebbe il compito ripristinare la sicurezza locale e favorire l’eventuale reinsediamento di un governo legittimo. Ma la carestia continua a mietere vittime, la forza multinazionale riesce a malapena a assicurare un cordone di sicurezza attorno agli aiuti umanitari, mentre il potere rimane saldamente in mano ai “signori della guerra”. La popolazione è stritolata nella guerra fra clan e stremata dalla fame. Nel frattempo, all’ombra della cooperazione internazionale, la Somalia è divenuta crocevia di traffici di ogni tipo: armi, rifiuti tossici, scorie nucleari. Traffici ai quali i caschi blu non sono estranei.

È questa la pista che Ilaria Alpi e Miran Hrovatin stavano seguendo prima di essere uccisi il 20 marzo 1994, a Mogadiscio. Solo loro, l’autista e l’uomo della scorta con cui viaggiavano no. Miracolosamente, escono illesi dall’agguato. Miran e Ilaria sono invece freddati a 300 metri dalla casa di Giancarlo Marocchino, noto faccendiere, frequentatore dei militari e, si dice, dei servizi segreti italiani. Fu lui il primo ad accorrere.

Un mistero targato Bosaso

Nei giorni precedenti, Marocchino aveva fatto scattare l’allarme fra i reporter italiani “Andate via, stanno preparando qualcosa contro di voi”. Ma i due giornalisti italiani non c’erano. Erano a Bosaso, ad intervistare il sultano Abdullahy Moussa Bogor a proposito della flotta di pescherecci Shifco, donata dalla Coooperazione italiana alla Somalia, del sequestro di una di queste navi, e – forse – di qualche traffico di armi e rifiuti fra Italia e Somalia.

Non fu un viaggio casuale. Un appunto trovato, dopo l’omicidio, sulla scrivania di Ilaria Alpi nel suo ufficio alla Rai dimostra che Ilaria seguiva da tempo questa pista «Bosaso, Mugne, Shifco, 1.400 miliardi (fondi Fai) di lire…dove è finita questa impressionante mole di denaro?»

E che Ilaria avesse intenzione di andare a Bosaso, lo ha confermato anche Alberto Calvi, l’operatore Rai che l’aveva accompagnata in Somalia per ben quattro volte (la prima nel 1992, le rimanenti nel 1993): «Non ci andammo prima perché impegnati a seguire i fatti di cronaca a Mogadiscio e perché non avevamo soldi e scorta a sufficienza; c’era il rischio di lasciarci la pelle», ha spesso ricordato Calvi, dopo la morte di Ilaria.

Ma a dirlo è anche Massimo Loche, l’allora direttore del Tg·. “Quando mi chiamò da Bosaso, il 17 marzo, sentii Ilaria molto eccitata perché aveva realizzato un buon servizio”, ha dichiarato Loche agli investigatori della Procura della Repubblica di Torre Annunziata. In una seconda telefonata al Tg3, fatta il 20 marzo ’94, e riferita dal collega Flavio Fusi, Ilaria avrebbe detto: “Ho delle cose grosse, ho un ottimo servizio”.
Poche ore dopo veniva uccisa.

Un crocevia di traffici all’ombra della cooperazione

A Bosaso, secondo Ilaria succedeva qualcosa di strano. E ci aveva visto giusto. Nel 2004, interrogato dagli investigatori della Procura di Asti, Marcello Giannoni, titolare e socio della Progresso Srl di Livorno, che si occupava di smaltire rifiuti tossico-nocivi, ha rivelato che «in Somalia sono arrivati sicuramente rifiuti tossici di tipo industriale e, forse, di tipo sanitario. Dove? Nella zona di Bosaso. Lo so con certezza. Sono stati impiegati, come materiale di riempimento, durante i lavori di realizzazione del porto e della strada che va a Garoe». E nel girato di Miran arrivato in Italia, quella strada c’è. Un lungo filmato di quella strada che unisce Bosaso a Garoe.

Secondo la Procura di Torre Annunziata invece, di mezzo c’erano anche armi provenienti dall’Est Europa e portate in Somalia da Hercules C-130 italiani. A indicare questa pista è stato soprattutto l’imprenditore Francesco Corneli, ritenuto vicino ai servizi segreti siriani, nonché ex collaboratore esterno del Sisde, ascoltato più volte nel giugno 1997. Agli investigatori, Corneli ha fornito dei dettagli inediti: secondo lui, per fronteggiare la guerra civile che lo vedeva perdente, il dittatore somalo Siad Barre, tra il 1990 e il 1991, chiese ai suoi referenti socialisti in Italia di procurargli «armamenti di alta tecnologia».

Invece, il 7 agosto 1997 un altro testimone, Marco Zaganelli, dichiarava: «Nel periodo in cui sono stato in Somalia, io e tanti altri abbiamo notato con cadenza settimanale la presenza di aerei militari non identificati del tipo Hercules che scaricavano armi in Somalia».

Ilaria, Miran e un lungo rosario di morti

Ma questo Ilaria non l’ha potuto scrivere. Quando Giannoni, Corneli e i tanti altri che hanno aggiunto tessere al mosaico di Bosaso, hanno parlato, lei era già morta. Né è dato sapere cosa Ilaria avesse scoperto. Nonostante in Somalia fossero presenti gli uomini del contingente italiano, quelli del Sismi comandati da Luca Rajola Pescarini ed anche un nucleo dei Carabinieri del Tuscania, dopo l’omicidio, nessuna indagine è stata avviata. Nessuno ha interrogato i testimoni oculari, raccolto i bossoli, effettuato misurazioni e rilevamenti balistici. Non è stata effettuata neanche un’autopsia. Sarà solo nel 1996 che le analisi sulla salma riesumata metteranno in luce che i colpi che hanno ucciso Miran e Ilaria sono stati sparati a bruciapelo, facendo saltare le ricostruzioni che volevano i due giornalisti vittime casuali di un agguato. Ed ancora. Si sa che Ilaria aveva con sé due taccuini, un block notes fitto di appunti e una macchina fotografica. Nulla di tutto ciò è arrivato in Italia, ma c’è chi questi oggetti li aveva visti e filmati. La morte di Ilaria e Miran fu ripresa da due troupes di altrettante emittenti televisive: Rtsi (svizzera italiana) e Abc (USA). Ma stranamente anche gli operatori delle due tv sono morti poco tempo dopo in circostanze poco chiare. Vittorio Lenzi (Rtsi)trovò la morte in un incidente stradale mai del tutto chiarito. Stessa sorte tocco al cameraman di Abc, rinvenuto cadavere in un albergo di Kabul un anno dopo.
Morti sospette, come quelle di altri personaggi collegati al “Caso Alpi”. Come quella di Vincenzo Li Causi, capostruttura di Gladio in Sicilia, maresciallo del Sismi e confidente di Ilaria, ucciso in Somalia pochi mesi prima dell’agguato che è costato la vita alla giornalista Rai e al suo operatore. Li Causi sapeva del possibile coinvolgimento di militari italiani nel traffico illecito di armi. Segreti che prima di morire sarebbe riuscito a passare a Ilaria. E il 13 giugno 1995 verrà trovato ucciso anche Marco Mandolini, paracadutista della Folgore, stretto collaboratore e amico di Li Causi. Lo troveranno cadavere sulla spiaggia di Livorno, ucciso da 40 coltellate e con la testa fracassata.
Un documento riservato del Sismi proverebbe la collaborazione tra Li Causi e Mandolini nel trasporto di materiale bellico dal porto di La Spezia al porto di Trapani, all’aeroporto militare trapanese, alla Somalia. Traffici “sospetti” che erano stati filmati clandestinamente dal giornalista Mauro Rostagno, ucciso anch’egli il 26 settembre 1988 in circostanze a loro volta mai chiarite.

Le indagini

Questi non sono che alcuni pezzi del mosaico su cui la magistratura e la Commissione parlamentare d’inchiesta istituita nel 2004 e presieduta dall’On. Carlo Taormina avrebbero dovuto far luce. Ma ancora oggi l’unico a finire dietro le sbarre è stato Hashi Omar Assan, condannato a 26 anni per concorso in omicidio plurimo. Assan era arrivato a Roma due giorni prima del suo arresto per testimoniare alla commissione sulle presunte violenze dei soldati italiani in Somalia. Ma per casualità sarebbe stato immediatamente identificato dall’autista della Alpi come uno dei componenti del commando.

La condanna è arrivata dopo due processi. Il primo si era concluso con una sentenza di assoluzione che definiva il procedimento come «la costruzione di un capro espiatorio». «Alcune piste» scrivevano i magistrati «potrebbero portare a ritenere che la Alpi sia stata uccisa a causa di quello che aveva scoperto». Nella stessa direzione va quanto dichiarato dal Generale del Sisde Rajola Pescarini alla Commissione Parlamentare di inchiesta : «I misteri della cooperazione non si trovano né a Bosaso né a Mogadiscio. Stanno a Roma, o in qualche Paese vicino, dove ci sono le banche».

Una Commissione che ha concluso i suoi lavori praticamente con un nulla di fatto. Tre relazioni, tutte contrastanti. Quella di maggioranza, in barba a 10 anni di inchieste giornalistiche e giudiziarie che hanno battuto la strada dei traffici di armi e di rifiuti radiottivi, degli affari italiani della cooperazione in Africa e delle contiguità dei servizi segreti con faccendieri spregiudicati, identifica nell’estremismo islamico la matrice dell’omicidio. Quella di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, ha detto Taormina «è stata una settimana di vacanza conclusa tragicamente».

«I punti critici della commissione sono tantissimi» ha detto Mauro Bulgarelli, autore di una delle relazioni di minoranza «ad esempio, a noi commissari non è mai stato permesso di controinterrogare una delle persone che piú hanno vissuto il caso Alpi direttamente, cioè questo faccendiere, Giancarlo Marocchino. E poi c’è l’attacco da parte del presidente nei confronti della stampa, in particolare contro Maurizio Torrealta». Il giornalista, uno dei primi a investigare sulla morte di Ilaria è stato accusato di aver occultato del materiale. «È stato ascoltato una prima volta», ha riferito Bulgarelli, « doveva essere chiamato una seconda, ma dopo una settimana vennero sequestrati dei documenti che lo riguardavano alla Rai, incluso la sua scheda personale». E per le sue indagini è stato più volte querelato e ha subito 5 processi.

Eppure, nonostante gli sforzi di familiari, parlamentari e giornalisti, oggi non si è ancora arrivati alla verità. Nessun processo ha messo dietro le sbarre i mandanti dell’esecuzione dei due giornalisti. «Basterebbe semplicemente intrecciare le carte, tutte secretate, chiuse in non so quale stanza di non so quale palazzo dello stato italiano, per capire chi ha ucciso Ilaria Alpi», è il commento amaro di Bulgarelli.

Ma nonostante siano passati 16 anni, il caso rimane di schiacciante attualitá: «Ogni indagine che viene fatta sul traffico di rifiuti tossici e sul loro smaltimento illecito, finisce per essere legata al caso. Due fa un pentito di una cosca calabrese, ha parlato di smaltimento di rifiuti tossici dirottati verso la Somalia. Il paese in quel momento era il centro di tutta una serie di malaffare, dal traffico di armi, al riciclaggio di denaro, al traffico di rifiuti tossici, che sembrava uno degli sport preferiti delle ricche democrazie occidentali, che andavano lì a sotterrare ciò che era bene non tenere in patria perché ritenuto pericoloso. C’è stata già l’ammissione da parte di alcuni Paesi, come la Svezia qualche anno fa, mentre in Italia tutto tace», ha affermato Bulgarelli.

Quel pentito si chiama Francesco Fonti. Ha iniziato a collaborare con i magistrati della Dda di Reggio Calabria nel ’94. Ed è considerato “uno che sa”.

Il 5 luglio 2005 Fonti è stato sentito anche dalla commissione d’inchiesta sulla morte di Ilaria e Miran. E con i commissari, Fonti ha parlato a lungo. Delle due navi della Shifco – una carica di rifiuti compresi fanghi di plutonio, l’altra di armi- che dall’Italia vanno in Somalia tra Mogadiscio e Bosaso a fine gennaio ‘93. Di un altro carico stessa destinazione nel 1987/1989. Di Giancarlo Marocchino come persona che ha fornito gli automezzi da Mogadiscio a Bosaso. Di altri nomi “interessanti” per l’inchiesta compresi quelli di chi ha trattato con lui (italiani e somali) e di chi si è occupato dell’occultamento dei carichi. Ma tutto è stato secretato. E il segreto – si sa – è l’anticamera dell’oblio.

Come nell’oblio è finita l’inchiesta interna che avrebbe dovuto far luce su chi avesse fatto sparire, dal plico custodito nell’Archivio della Procura di Reggio Calabria, 11 dei 21 fascicoli archiviati, insieme al certificato di morte della giornalista del Tg3. Certificato che era stato ritrovato a casa di Giorgio Comerio, noto faccendiere al centro dell’inchiesta per l’affondamento della nave Jolly Rosso. Un’indagine complessa, durante la quale sono venuti fuori nomi di Stati e trafficanti coinvolti nella presunta operazione affonda scorie. L’ennesima “nave dei veleni” affondata nei mari calabresi con la stiva piena di veleni di ogni tipo, ma non prima di aver scarrozzato da una parte all’altra del Mediterraneo armi, munizioni e rifiuti di ogni genere. Traffici che solamente organizzazioni criminali come la ‘ndrangheta possono gestire. Traffici che però – dicono le inchieste – non avrebbero potuto crescere e prosperare, ramificandosi in tutti i territori e su tutti i mercati senza coperture, silenzi e complicità nelle strutture di potere pubbliche e private. Eppure, non c’è ancora nessuno che stia pagando. Né per i quintali di scorie sversati davanti alle nostre coste, né per i traffici che hanno rimpinguato le casse di criminali di ogni latitudine e nazionalità, né per l’omicidio dei due giornalisti.

L’unico a finire dietro le sbarre per la morte di Ilaria e Mirano è stato Hashi Omar Hassan. Assolto in primo grado perché definito dai magistrati “un capro espiatorio”, condannato in secondo grado, con pena ridotta in Cassazione, Hassan sta scontando 26 anni nel carcere di Padova. A inchiodarlo, la testimonianza di Ali Rage Hamed detto Jelle, misteriosamente scovato da un “funzionario dell’ambasciata italiana”, sparito venti giorni prima del processo e tuttora “irreperibile”. A nulla sono valse né le testimonianze di chi ha dichiarato che Jelle non era presente sul luogo del duplice omicidio, né una conversazione telefonica registrata in cui lo stesso Jelle dichiara di essere stato indotto ad accusare Hashi ma di voler ritrattare e raccontare la verità.

Oggi però il caso Alpi potrebbe riaprirsi. Il dottor Maurizio Silvestri ha respinto la richiesta di archiviazione avanzata dal Pm Giancarlo Amato della Procura di Roma disponendo invece l’imputazione coatta per il reato di calunnia per Jelle. A meno che qualcuno non intervenga – per l’ennesima volta- a rimescolare le carte.

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Primo maggio a Rosarno: una scommessa riuscita a metà

Quindicimila secondo gli organizzatori, diecimila per la Questura: quale che sia la verità, il timore che la tradizionale manifestazione nazionale dei sindacati confederali, quest’anno convocata a Rosarno, si trasformasse in un flop è stato sfatato.

La piazza è piena, ma Rosarno guarda

Sotto le bandiere di Cgil, Cisl e Uil, migliaia di lavoratori provenienti da ogni parte della Calabria e della Sicilia, come dalle lontane regioni del Nord, migranti, collettivi studenteschi di scuole e università, militanti della sinistra e delle ong locali, hanno  sfilato il I Maggio per le strade di quello stesso paese della Piana di Gioia Tauro che, a gennaio, aveva visto insorgere i lavoratori africani contro lo strapotere e le vessazioni delle ‘ndrine.

Nei primi giorni dell’anno, l’ennesimo episodio di violenza contro la comunità migrante – una raffica sparata da una macchina in corsa contro un gruppo di lavoratori, fermi davanti a uno dei ripari di fortuna nei quali erano costretti a vivere-  aveva fatto esplodere la violenza. Sfruttati per poche decine di euro in campi e agrumeti, costretti a vivere nell’emarginazione e nel degrado, i lavoratori avevano dato sfogo alla propria rabbia nelle strade del paese.

Proprio per ricordare quella rivolta, per ribadire che il territorio deve essere affrancato dal potere della ‘ndrangheta e dalla piaga del sottosviluppo, la Triplice ha scelto Rosarno per celebrare la Festa del Lavoro. Ma la scommessa è riuscita solo a metà: i rosarnesi hanno risposto solo in minima parte all’appello dei sindacati. La maggior parte di loro ha visto sfilare il lungo serpentone di manifestanti dall’alto dei  balconi o dall’uscio di casa.

Il corteo

Partito dalle macerie della Rognetta, l’ex rifugio-ghetto raso al suolo dal governo dopo la rivolta di gennaio e il trasferimento – per alcuni, deportazione – dei lavoratori immigrati della zona, il corteo ha portato fra le case basse di Rosarno le vertenze e le lotte della regione.

Slogan e striscioni hanno raccontato la tragica situazione all’Ansaldo Breda e nei cantieri dell’A3, al Porto di Gioia Tauro, come nella grande distribuzione. Altri cartelli hanno semplicemente gridato la tragedia del lavoro che non c’è, dei tagli allo stato sociale che spengono anche la speranza di costruirsi un futuro migliore attraverso l’istruzione. Tantissimi invece hanno solo detto basta alla ‘ndrangheta, allo sfruttamento dei lavoratori, italiani e immigrati. Storie di disoccupazione e precariato, sfruttamento, emarginazione, immigrazione ed emigrazione che per un giorno si sono intrecciata in un unico grande corteo.

Ombre sul Primo Maggio

Ci sono stati anche striscioni che hanno però denunciato i limiti di una “manifestazione che, per quanto positiva, rimane un’iniziativa miope: i diritti dei lavoratori vanno difesi ogni giorno e non ci si può ricordare di essere antirazzisti solo una volta l’anno”, spiega uno degli attivisti del collettivo. Sotto accusa, il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, che “con le sue aperture a padroni e Confindustria ha aperto uno squarcio nel fronte dei lavoratori”.

Dito puntato anche contro lo Stato, colpevole “nella migliore delle ipotesi di una sovrana ipocrisia: il 7 gennaio scorso, le ‘ndrine avevano bisogno di disfarsi dei migranti. Lo Stato ha risposto con un trasferimento che assomiglia ad una deportazione”, spiega una delle ragazze che sostiene lo striscione che ricorda l’episodio.

Critiche che però a piazza Valarioti non sono riuscite ad arrivare: nella giornata della ritrovata unità sindacale, sono le forze dell’ordine a obbligare – anche in modo brusco – i ragazzi a far sparire uno striscione che recita “Bonanni boia”. Stesso trattamento per lo striscione che metteva sotto accusa Stato, istituzioni e forze dell’ordine. “È un messaggio che non posso accettare – spiega un ispettore della Digos che non ha preferito non identificarsi – noi i caporali li abbiamo arrestati giusto un paio di giorni fa”.

“Eppure” fa notare un anziano militante, fazzoletto della Cgil al collo, rughe e mani da una vita passata nei campi, “sulla statale 18 anche oggi c’erano centinaia di lavoratori che si vendevano come bestie al mercato, e i veri caporali ancora nessuno li ha toccati. E poi, da quando in qua c’è la polizia che sugli striscioni fa il controllo qualità?”.

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Tegano, 40 anni al comando della ‘ndrangheta del reggino

Palazzoni grigi, alcuni dei quali vistosamente abusivi, in perenne costruzione. I ferri arrugginiti dalle intemperie che sbucano dalle travi si protendono verso il cielo. Saranno coperti dal calcestruzzo del prossimo piano, del prossimo figlio. Su tetti e terrazze, antenne paraboliche e cisterne per l’acqua. La statale che taglia in due il quartiere. Strade mai concluse, eterni cantieri. E portoni blindati. Come quello ancora crivellato dai colpi di villa De Stefano. Archi, periferia nord di Reggio Calabria. È qui che ha imperversato per decenni Giovanni Tegano, il super-boss arrestato ieri dopo 17 anni di latitanza. Uno dei capi storici della ‘ndrangheta di Archi e uno dei pezzi da novanta della ’ndrangheta calabrese. Perché proprio ad Archi, nel feudo dei De Stefano, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, viene teorizzata e portata avanti la “grande svolta” che porta la ‘ndrangheta nei salotti buoni, negli affari, nella politica e nella massoneria calabrese.

Contro la vecchia ‘ndrangheta agro-pastorale di ‘Ntoni Macrì, si schierano la ‘ndrina di Mommo Piromalli e i De Stefano, astri nascenti della malavita reggina e la galassia di clan che gravita attorno a loro: i Tegano, i Condello, i Morabito. Con loro, gli Strangio di San Luca, i Barbaro di Platì, i Mammoliti di Castellace, i Ietto di Natile di Careri. È la guerra. Tre anni di agguati, sparatorie, omicidi. 233 morti accertati. La parola fine viene scritta nel carcere di Poggioreale, dove un giovane Raffaele Cutolo da Ottaviano – futuro boss incontrastato della Nuova camorra organizzata- fa uccidere don Mico Tripodo su richiesta dei compari De Stefano e dietro un pagamento da cento o duecento milioni di lire. È la vittoria definitiva dei De Stefano in città. E dei loro sodali, come i Tegano.

Ma le fragili alleanze venute fuori da quella guerra durano poco, meno di dieci anni. Già nel ’77, l’omicidio di Giorgio De Stefano, attirato in una trappola e assassinato in un agguato mafioso nei pressi di Gambarie d’Aspromonte, rischia di innescare immediatamente una nuova guerra. Giorgio, considerato la mente della ‘ndrina reggente nel reggino, secondo gli investigatori era il trait d’union fra la ‘ndrangheta e la zona grigia di imprenditori, politici e uomini di Stato che con la malavita calabrese, a quell’epoca, ha iniziato a fare affari. Insieme a lui, in quell’agguato, sarebbe scomparsa una “superagenda”, dalla quale il boss non si separava mai, sulla quale erano riportati i numeri telefonici diretti di imprenditori di livello nazionale e membri della Loggia P2 sul libro paga delle ‘ndrine.

Solo la testa tagliata dell’assassino, portata su un piatto al fratello del boss assassinato, Paolo, riesce a placare l’ira e la vendetta del clan. Ma da quel novembre 1977, i rapporti di forza nel reggino e all’interno della galassia di ‘ndrine federate attorno ai De Stefano iniziano a vacillare.

Nel 1985, Reggio e provincia tornano a sprofondare nel terrore. Il fallito attentato al boss di Fiumara di Muro, Nino Imerti, il “Nano feroce”, commissionato dal mammasantissima di Archi, Paolo De Stefano, è la miccia che diede fuoco alle polveri di una guerra che insanguinerà il reggino per più di dieci anni. E lascerà sul terreno quasi mille morti.

Imerti per i De Stefano doveva morire perché divenuto troppo “intraprendente”. Ma la bomba che doveva far saltare la sua Mercedes blindata, miracolosamente, non lo uccide. E il primo a fare le spese di quel fallito attentato è proprio il boss di Archi. Le giovani leve del clan guidate da Pasquale Condello, “il supremo”, escono allo scoperto. Per vendicare lo ‘sgarro’ subito dal ‘Nano Feroce’ colpiscono Giorgio De Stefano nel suo stesso feudo: mentre il boss percorre da latitante le strade del quartiere, un commando raggiunge la moto sulla quale viaggia e uccide a sangue freddo lui e il suo guardaspalle. È l’inizio del violentissimo scontro tra i cosiddetti “scissionisti”(Condello-Imerti-Serraino) e la galassia destefaniana (Tegano-Libri-Latella), che presto si allargherà a macchia d’olio a tutta la provincia. Sui due fronti, rapidamente di allinearono tutte le ‘ndrine della jonica e della tirrenica. Sangue chiama sangue.

Al centro dello scontro il controllo della città, i nuovi appalti miliardari in arrivo con il decreto Reggio e il Ponte sullo Stretto di Messina, la Salerno-reggio calabria e il Porto di Gioia Tauro, i sempre più ricchi traffici di droga. La situazione precipita immediatamente, in città c’è un morto ammazzato ogni tre giorni, le vie si riempiono di macchine blindate e sentinelle, alcuni quartieri diventano impenetrabili. E si fanno forti sempre di più le collusioni con il potere politico ed economico della città. Una dimostrazione pesante è l’omicidio dell’ex presidente delle Ferrovie dello Stato Vico Ligato, potentissimo uomo dc, che sarebbe stato assassinato dagli Imerti-Condello perché considerato troppo vicino ai De Stefano.

Di quella guerra Giovanni Tegano è uno dei protagonisti, ai vertici di uno del sodalizio criminale che decide omicidi, agguati, strategia economica e criminale del fronte dei destefaniani. Così come protagonista è degli anni della pax mafiosa, raggiunta tra difficili mediazioni – secondo alcune ricostruzioni saranno costrette a intervenire anche le famiglie di oltremare – nel 1991.

Il primo a parlare del ruolo di Tegano nell’universo ‘ndranghetista è Giacomo Lauro, uno dei pochi collaboratori di giustizia legati all’organizzazione criminale calabrese. Secondo le rivelazioni di Lauro, Tegano è uno dei componenti della commissione provinciale della ‘ndrine, che al termine del conflitto fissa dei criteri rigorosi di delimitazione dei “locali”». Insieme a lui, secondo le ricostruzioni degli inquirenti, al tavolo della commissione, altri volti e nomi noti della ‘ndragheta calabrese, boss del calibro di Pasquale Condello (detto il “Supremo”), Nino Mammoliti, Gioacchino Piromalli,Umberto Bellocco, Cosimo Alvaro e Santo Araniti.

A quell’epoca, Giovanni Tegano è già inabissato nell’ombra di una latitanza che diventerà quasi ventennale, ma non gli impedirà di continuare a tessere le fila degli affari di quella che rimane una delle ‘ndrine più potenti del reggino.

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Ndrangheta: in piazza contro gli applausi alla mafia

L’appuntamento per tutti è alle 20 davanti alla Questura di Reggio Calabria. Per dimostrare che esiste un’altra Calabria. Per “esprimere solidarietà a investigatori e inquirenti che nell’assoluta mancanza di uomini e mezzi continuano a combattere”. Il movimento anti-ndrangheta reggino si presenterà stasera davanti a quell’edificio grigio dal quale è uscito in manette Giovanni  Tegano, il superlatitante della ‘ndrangheta arrestato ieri sera dopo 17 anni di latitanza.

Lo stesso edificio davanti al quale più di un centinaio di persone si sono radunate oggi per “rendere omaggio” al boss, definito “un uomo di pace”. Una voce di donna che maledice le forze dell’ordine, i parenti del boss, ma anche gente comune – uomini, donne, tanti bambini – accorsi a protestare contro la detenzione di uno dei 30 latitanti piú pericolosi d’Italia, quel Giovanni Tegano, sul cui capo pende già una condanna all’ergastolo , e al quale nella notte è stata notificata un’ulteriore sequela di pesanti accuse tra cui omicidio, associazione a delinquere di stampo mafioso, estorsione, usura, danneggiamenti.

“Si tratta di una delle pagine più nere e vergognose della nostra storia recente”, ha detto Omar Minniti, consigliere provinciale di Rifondazione Comunista e tra gli organizzatori della contro-manifestazione di stasera. “Purtroppo però non è un fatto isolato: il 12 Marzo, alla vigilia del no-mafia day centinaia di persone hanno partecipato al ‘funerale di popolo’ del boss Serraino. Fatti del genere dimostrano  che esiste una minoranza consistente e visibile, composta da affiliati e da quella zona grigia contigua ai clan, ma anche una parte consistente della popolazione ‘a-mafiosa’ , per la quale cioè la lotta ai clan non è una priorità”.

Per dimostrare peró che c’è una parte consistente della città che contro la ‘ndrine ha intenzione di combattere,  il movimento anti-ndrangheta, Rifondazione Comunista e la Cgil hanno dato appuntamento a tutta la cittadinanza proprio lì dove oggi c’è stata la piú palese manifestazione di asservimento al potere dei clan. Sms, twitter, facebook, le poche ore a disposizione hanno spinto gli organizzatori a sfruttare ogni mezzo per contattare piú gente possibile, nel minor tempo possibile, “per dare una risposta forte, immediata” a quell’organizzazione criminale che oggi, con 44 miliardi di fatturato annuo, è una delle più floride aziende italiane.

“La contiguità fra la ‘ndrangheta e settori dell’imprenditoria è ormai cosa più che nota. Per questo la nostra lotta contro le ‘ndrine si fa anche difendendo a livello sindacale con il coltello tra i denti i diritti dei lavoratori, le prime vittime di questo sistema, e portando i temi dell’antimafia sociale nei luoghi di lavoro”, ha commentato Minniti.

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